L’invenzione dell’alfabeto

Siamo abituati a pensare che un giorno, ad un uomo particolarmente geniale, siano saltati in mente una ventina di segni grafici in grado di riprodurre tutte le modulazioni fonetiche del nostro linguaggio. Dotatasi di questo formidabile strumento, l’umanità iniziò la pratica definitoria delle cose, riproducendo il mondo, operando su di esso e tramandandolo. Tale pensiero semplifica e falsifica le cose, senza comprendere nulla della genesi della scrittura e in particolare dell’alfabeto. Se qualche volta, aprendo fra le compatte onde del quotidiano un solco, ci raggiunge l’idea che le lettere dell’alfabeto celino un antico segreto, essa presto scompare, come la scia del motoscafo, per lasciarci la nostalgia di chissà quali paradisi perduti.

Ma vi è un altro modo di pensare le cose. L’invenzione dell’alfabeto - come altre rivoluzioni determinanti per la nostra specie: la cottura dei cibi, l’agricoltura, la stampa, la digitalizzazione, etc.-, potrebbe non essere stata la trovata di un genio isolato, bensì il risultato della pressione di indifferibili esigenze sociali. Sarebbe stata la necessità di contare i debiti e di trasmettere un numero di informazioni sempre maggiore ad imporre l’invenzione dei numeri e della scrittura quasi contemporaneamente ad uomini di culture e paesi differenti. Sulla spinta di esigenze evolutive -in fin dei conti per l’esigenza di sopravvivere - secondo alcunisarebbe sorta persino, e del tutto recentemente in confronto alla storia dell’Homo Sapiens, la coscienza, tanto che ancora Hammurabi e gli eroi dell’Iliade pare fossero dotati di forme coscienziali ancora incerte e provvisorie. Solo che ci è difficile immaginare un uomo senza la coscienza, così come ci è difficile immaginare un uomo e una cultura senza la scrittura.

Se le cose stanno in questo modo, se queste grandi “invenzioni” sono il risultato di pressioni ed esigenze “sociali”- nel senso più vasto del termine - ciascuna parola, come ciascun segno grafico che la compone, non è il prodotto casuale di un estro creativo personale, ma reca in sé, sepolta dalla polvere del tempo e trasformata dalle vicissitudini, la memoria di una primordiale unità con la cosa che designava: la memoria di un tempo in cui segno, disegno e cosa non erano ancora state disgiunte dall’uso definitorio della parola.

Così, per Alfred Kallir2i segni A B G rappresentano ancora oggi rispettivamente l’uomo (una testa di bue rovesciata), la donna (il seno e il ventre gravido), la generazione della prole dove le gutturali hanno in comune una concavità tipicamente femminile penetrata dal trattino orizzontale della G, forma a cui non sfugge l’alfabeto di Enrico Sempi.

L’alfabeto di Enrico Sempi è composto di 24 segni, ciascuno dei quali partecipa della forza e della capacità evocativa di ogni alfabeto. Una potenza formidabile che la pratica della lettura silenzia in quanto esige di vedere “attraverso” i corpi visivi dei segni, i quali si limitano a dirigerci verso il senso logico della parola. Quando leggo il singolo segno diviene trasparente, come se la pagina fosse una lastra di vetro al di là della quale traguardare le cose a cui le parole rimandano. Paradossalmente vediamo il corpo delle singole lettere solo quando, per un difetto visivo, non riusciamo a distinguerne il disegno.

Nel lavoro di Enrico Sempi i segni, dis-velati attraverso l’originale tecnica del lavaggio e liberi dallo scontato rimando alle cose, ci ri-guardano. Essi chiedono un’immersione in quella dimensione collettiva dell’inconscio da cui proviene ogni alfabeto: un mondo in cui il sapere precede la dicotomia fra magia e scienza, in cui non esiste distinzione fra il sapere magico radicato nell’esperienza della vita vissuta come un tutt’uno e i mille rivoli specialistici in cui le Scienze della Natura hanno frammentato la conoscenza.

Vale dunque, per l’alfabeto di Enrico Sempi, ciò che Alfred Kallir scrisse a proposito del nostro alfabeto: “L’alfabeto non può essere spiegato senza una certa comprensione della natura della magia; e questa può a sua volta trarre chiarezza dallo studio dell’alfabeto. Quest’ultimo, a nostro avviso, narra la storia della creazione dell’uomo singolo nonché della specie umana, tendendo allo stesso tempo a costituire una catena magica di simboli procreativi destinati a salvaguardare la sopravvivenza della razza”.3

Roberto Viglino

1.Julian Jaynes, Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, Milano, Adelphi, 1984.

2.Alfred Kallir, Segno e disegno: psicogenesi dell’alfabeto, Milano, Spirali/Vel, 1994.

3.ivi, p. 26.